VERDUN, Un anno di carneficina. 100 anni fa la sanguinosa battaglia della Grande Guerra

Il mausoleo dedicato ai militi ignoti si staglia alto sull’orizzonte, in questo giorno in cui scrosci violenti di pioggia e un caldo asfissiante si alternano come fossero ondate contrapposte di due eserciti nemici che tentano di tutto per sopraffarsi. E laggiù, a meno di una manciata di chilometri, i ruderi delle fortificazioni, delle trincee, delle postazioni d’artiglieria sono così vivi e ben conservati che quasi t’abbandoni al macabro gioco di disegnare con lo sguardo le traiettorie di quei proiettili, di indovinarne i letali e distruttivi effetti.

Siamo in uno dei grandi buchi neri della prima guerra mondiale, forse quello che insieme a Ypres è, sul fronte occidentale, l’emblema stesso di quel conflitto: Verdun.
Verdun è oggi una città di quasi 20.000 abitanti che si trova nel Dipartimento della Mosa, nella regione della Lorena. Ma un secolo fa, tra questo fango e questa nebbia che oggi fanno un tutt’uno col cielo della Mosa, per 11 mesi infuriò la battaglia che s’inghiottì quasi un milione di soldati e che rappresentò uno degli scontri principali della Prima Guerra Mondiale sul fronte occidentale. Sarebbe stata un’anonima cittadina di provincia e di confine, forse, Verdun, senza quel conflitto, che la trasformò invece prima in uno dei punti cruciali del fronte, poi in un luogo simbolo da difendere o conquistare oltre ogni logica: di tattica, di raziocinio, di strategia.
La città resistette a ogni assalto, anche grazie all’intuito del generale Philippe Pétain (sì, proprio l’uomo che nel secondo conflitto mondiale fu a capo del governo collaborazionista di Vichy), che seppe proteggere e preservare dall’avanzata tedesca l’unica via d’approvvigionamento della città, la “Voie Sacrée”, ogni passo della quale è ancor oggi scandito da cippi commemorativi, seppur quasi nascosti a margine della strada asfaltata che ricopre e ricalca in parte, ora, la via di allora.
Per capire cosa significa e cosa rappresenta Verdun per i francesi bisogna ricordare che qui tutti, ma proprio tutti, i soldati dell’esercito transalpino combatterono almeno un giorno. La Battaglia di Verdun verso la fine di dicembre 1916 era tecnicamente terminata, ma il segno che lasciò sull’esercito francese fu indelebile. Le perdite furono spaventose: da 400.000 a 542.000 fra morti, feriti e dispersi per l’esercito francese; da 355.000 a 434.000 per l’esercito tedesco. Verdun rappresenta l’ombelico della Grande Guerra ed è così diventato il luogo deputato alla memoria collettiva attirando a sé ogni anno ben 1.500.000 visitatori.
Camminare per le vie e i dintorni di Verdun, oggi, vuol dire ripercorrere i sentieri di quella memoria non ancora da tutti condivisa (basti pensare che qui l’orologio delle celebrazioni del Centenario è fissato al 2016, anno della ricorrenza della battaglia, come se il conflitto per i francesi non fosse iniziato ben due anni prima…).
Raso al suolo nel corso di 16 assalti consecutivi, il villaggio di Fleury è il sito in cui oggi sorge il Mémorial de Verdun, un museo che rievoca la storia di 300 giorni, 300.000 morti, 400.000 feriti, per mezzo di una collezione estremamente eterogenea di armi e cimeli personali. Qui si combatté casa per casa, vicolo per vicolo, come in decine di altri villaggi della zona: immaginate centinaia di piccole comunità spazzate via a colpi di granate e di gas. La piccola cappella di Fleury ci ricorda che qui c’era vita, speranza, futuro. Oggi invece – a ricordare ciò che è stato – c’è memoria, ricordo, silenzio, marmo.
Pochi chilometri ed eccolo, maestoso e silente, si staglia davanti a nostri occhi, all’orizzonte, l’Ossuaire de Douaumont, il sacrario dedicato a migliaia dei militi che da queste trincee non tornarono più indietro… Ergendosi come un gigantesco bossolo su un mare di 15.000 croci, questo sobrio ossario – lungo 137 m. – fu inaugurato nel 1932, per divenire ben presto uno dei monumenti della Prima Guerra Mondiale più importanti di tutta la Francia. Al suo interno riposano i resti di circa 130.000 militi ignoti francesi e tedeschi, caduti sui campi di battaglia di Verdun e sepolti insieme in 52 tombe comuni, a seconda del luogo in cui morirono. Ogni lapide incisa indica un soldato, mentre una mostra fotografica ci restituisce immagini e atmosfera di ciò che un secolo fa divenne Verdun, tra granate, fango e gas: un paesaggio spettrale e lunare, dove il bosco e il silenzio avevano lasciato spazio alla grigia pietra, ai tronchi spezzati, al filo spinato, ai cadaveri lasciati marcire per giorni nella “terra di nessuno”.
Luoghi, punti strategici, aree di contatto, capisaldi contesi: Verdun e i suoi dintorni presentano molti punti i cui nomi sono diventati simbolo stesso della Grande Guerra. Basta scorrere l’orizzonte con occhio attento per individuarne i contorni, le tracce che ancor oggi sopravvivono.
Il Fort de Douaumont si trova a circa 2 km a est dall’Ossuaire; sulla collina più alta della zona sorge la più solida delle 38 strutture fortificate, costruite lungo un fronte di 45 km per proteggere Verdun. Quando ebbe inizio la Battaglia, il Forte di Douaumont – lungo 400 metri e dotato di 3 km di fredde e umide gallerie costruite tra il 1885 e il 1913 – era presidiato da una guarnigione estremamente ridotta. In questo modo, il forte fu facilmente espugnato già il quarto giorno di combattimenti; un fatto, questo, che inflisse un durissimo colpo al morale dei soldati francesi, anche se quattro mesi più tardi venne riconquistato dalle truppe coloniali provenienti dal Marocco.
Il Fort de Vaux fu il secondo forte a cadere. La sua difesa fu caratterizzata dall’eroismo e dallo spirito delle guarnigioni in esso presenti, comandate dal Maggiore Sylvain-Eugene Raynal. Sotto il suo comando, i francesi riuscirono a sopravvivere a numerosi assalti nemici, includendo in essi attacchi in campo aperto e scontri in barricate tra i corridoi del forte (che fu il primo forte a ospitare un combattimento all’interno dei sotterranei e delle mura).
La resa finale, infine, venne ottenuta dai tedeschi con l’avvelenamento dell’acqua potabile del forte, di modo che i francesi si trovarono a corto di risorse idriche, oltre che di munizioni, cure mediche e cibo. Raynal incoraggiò i suoi uomini con la nota frase “on ne vas pas se rendre si facilement!” (non ci arrenderemo così facilmente!); più volte egli cercò – inutilmente – di inviare messaggi d’aiuto al comando principale attraverso i piccioni viaggiatori (pigeon). Durante l’ultima comunicazione il maggiore Raynal scrisse “Questo è il mio ultimo piccione”. E proprio a quell’ultimo, eroico piccione venne dedicata una targa commemorativa ben visibile ancor oggi.
Ma non solo nelle aree commemorative e nelle fortificazioni esterne alla cinta muraria doveva entrare la Grande Guerra: essa penetrò fin nelle vie e nelle viscere stesse di Verdun. Basti attraversare ai gelidi corridoi della Cittadella Sotterranea per comprenderlo. Si tratta di una vasta roccaforte composta da 7 km di gallerie, progettata dal celebre Vauban – nel corso del XVII secolo – e portata a termine nel 1838. Nel 1916 questa fortezza venne trasformata in un inespugnabile centro di comando nel quale vivevano 10.000 poilus (nome con cui venivano definiti i soldati francesi della Grande Guerra) in attesa di essere mandati al fronte. Circa il 10% delle gallerie è stato oggi riconvertito in una creativa rievocazione bellica multimediale e di forte impatto.
Il viaggio della memoria tra le vie e le trincee di Verdun lascia proprio quest’ultima, forte sensazione: se fai fatica ad arrenderti a uno sciovinismo e un nazionalismo che frantumano il senso unitario della celebrazione del Centenario, che diluiscono il significato di tale ricorrenza come celebrazione di un comune e condiviso, seppur sofferto, passato europeo, d’altro canto rimane impressa negli occhi l’attenta valorizzazione di quello che oggi è un patrimonio storico, culturale e archeologico di assoluto valore, quello sì condiviso (basti contare le centinaia di visitatori che arrivano dai Paesi del Commonwealth britannico, a partire proprio dall’Inghilterra). Al confronto, l’assordante silenzio che scandisce la marcia d’avvicinamento italiana alla celebrazione del Centenario, suona davvero come nota muta e stonata e, ancor di più, come occasione (finora) perduta per tornare a sentirci – a partire proprio dal nostro passato condiviso – ancor più convintamente europei.

Dario Ricci, giornalista di Radio24-IlSole24ore

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