Esame di Stato. Le distopie del Miur

Di Gennaro Lopez

 

Poche e confuse idee sulle finalità di questo esame che affondano nelle sabbie mobili di una visione labile, sfuggente della scuola e della sua funzione sociale. All’insegna dell’improvvisazione e dell’autoreferenzialità ministeriale.

 

 

 

 

Voglio innanzitutto ribadire una critica, già largamente diffusa, al metodo seguito dal MIUR per introdurre le “novità di stagione”: una scelta di tempi sbagliata, che fa piovere su docenti e studenti, nel bel mezzo dell’anno scolastico, innovazioni (appunto “estemporanee” e avulse da qualsiasi confronto di merito con la scuola “militante”), che provocano disorientamento e compromettono uno svolgimento sereno ed efficace dell’attività didattica. Queste innovazioni avrebbero richiesto e suggerito – se introdotte almeno dall’inizio dell’anno scolastico in corso – i necessari adeguamenti di percorsi e strumenti didattici. Va peraltro ricordato che, nel corso degli anni, l’esame di Stato ha subito frequenti modifiche, anche significative; negli ultimi anni, poi, il succedersi dei cambiamenti è stato frenetico, via via che si alternavano i ministri alla guida del Ministero; un MIUR che sembra vivere e operare in una sua realtà autoreferenziale, percepibile persino “a pelle” (basta affacciarsi qualche volta sui semideserti corridoi di viale di Trastevere per respirare un’atmosfera rarefatta, che ricorda film come L’année dernière a Mariembad di Alain Resnais o Deserto rosso di Michelangelo Antonioni, insomma il filone cinematografico dell’incomunicabilità); nascono così, dalla triste solitudine ministeriale, vere e proprie distopie, quali si riscontrano anche in questa occasione. Il mondo della scuola è, per il MIUR, un “altrove” lontano nello spazio e nel tempo; un mondo del quale, di fatto, vengono ignorate le esigenze di programmazione didattica, di scelte metodologiche e strumentali (per esempio: il tipo di esercitazioni, i testi da adottare, ecc.), necessarie proprio in funzione delle nuove tipologie di prove proposte per l’esame.

 

La valanga legislativa

La lettura delle disposizioni ministeriali rende difficile sfuggire all’idea che molto ci si sia affidati all’improvvisazione (mi riferisco, per esempio, alla seconda prova scritta e alle modalità di svolgimento del colloquio). Un’improvvisazione che risulta mortificante e offensiva sia per la professionalità dei docenti, tanto spesso evocata ma quasi mai effettivamente rispettata dal Ministero, sia per l’impegno con cui gli studenti si preparano in vista di una prova che è parte, tappa fondamentale non tanto e non solo del loro curriculum studiorum quanto piuttosto del loro progetto di vita. E dire che i tempi per ponderare scelte e decisioni ci sarebbero anche stati, se si pensa che siamo in presenza di un iter legislativo che parte con la legge 107 del luglio 2015, incomincia a concretizzarsi col decreto legislativo 62 del 2017 (si vedano soprattutto gli artt. 12-21) e che conosce infine una precipitosa accelerazione con la nota del MIUR 3050 del 4 ottobre 2018 (che contiene in allegato, tra l’altro, le griglie di valutazione per l’attribuzione dei punteggi), il DM 769 del 26 novembre 2018 (con i quadri di riferimento per la redazione delle due prove scritte e relative griglie di valutazione) e il DM 37 del 18 gennaio scorso (fondamentale per la definizione della seconda prova, indica anche le “modalità di avvicinamento” al colloquio e quelle del suo svolgimento; individua inoltre le discipline affidate a commissari esterni). Come al solito, una produzione normativa ridondante e “a cascata”, laddove sarebbe stato sufficiente un unico, chiaro – sia pure articolato – provvedimento.

Però, è vero, c’è stata di mezzo la cesura delle elezioni politiche del 4 marzo 2018 e questo, in effetti, spiega quella che ci sembra la contraddizione di fondo di queste norme, una contraddizione non risolta tra ruolo delle autonomie scolastiche e neocentralismo ministeriale. Va considerato, peraltro, che quella tra autonomismo e centralismo è una contraddizione tutta politica, tipica di questa fase, forse la più evidente e clamorosa tra quelle che caratterizzano la maggioranza parlamentare M5S-Lega e il Governo che essa sostiene. Nel nostro caso, da un lato l’autonomia delle scuole sembra acquistare peso con l’accresciuto punteggio attribuito al credito scolastico e con il cosiddetto “bonus maturità”, ma anche il Documento del Consiglio di classe (cosiddetto “del 15 maggio”) resta fondamentale, se inteso non come adempimento di rito, ma come documento su cui dovrà incentrarsi l’organizzazione dell’esame (in particolare del colloquio e della relativa valutazione); dall’altro lato, però, l’abolizione della terza prova scritta, che era interamente affidata alle scelte autonome delle Commissioni, l’adozione di “quadri di riferimento” (largamente ispirati a Indicazioni nazionali e Linee Guida), e soprattutto di griglie di valutazione nazionali, sembrano muoversi in direzione di un neocentralismo a vocazione fortemente selettiva. Proprio le griglie di valutazione evidenziano una delle incoerenze presenti nella normativa: mentre per la prima prova scritta sono previsti indicatori/parametri generali e indicatori specifici, per la seconda prova è invece prevista una valutazione complessiva dell’elaborato, con una oscillazione, dunque, tra l’analitico e il “panoramico”, che si ritrova anche in altri interventi “innovativi”.

 

Iniquità di sistema

Ma il discorso sulle griglie di valutazione ministeriali rinvia a un’ulteriore contraddizione di fondo: quella di chi vuole garantire “a valle”, attraverso l’esame e i suoi meccanismi, ciò che non si è saputo o voluto garantire “a monte” in termini di omogeneità, equità, diritto effettivo allo studio su tutto il territorio nazionale, tanto più che la misurabilità e la comparabilità delle competenze, se le si vuole prendere sul serio, assegnando loro anche una valenza educativa e formativa, andrebbero costruite lungo tutto il percorso scolastico e non solo verificate in uscita. L’apparente (e dichiarata) ricerca di “oggettività” ed “equità” rischia così di risolversi nel suo esatto contrario, nel sancire cioè il massimo di iniquità: un’iniquità di sistema. Tutto questo rispecchia, peraltro, una linea ministeriale, che ormai da anni è più attenta a come valutare che non a che cosa e come insegnare. Si aprirebbe qui, comunque, anche un altro, assai complesso, capitolo, che non posso sviluppare in questa sede: quello del rapporto tra autonomia scolastica, autonomie locali, regionalismi (sia quelli in essere – già di per sé molto differenziati – sia quelli incombenti, ancora più “differenziati”) e i mai sufficientemente evocati e invocati LEP.

 

Disciplinarismo binario e sorteggi

Evito di soffermarmi su ulteriori, discusse “innovazioni”: ad esempio, per la prima prova scritta, il superamento della scrittura documentata – già prevista dalla ex “tipologia B” – a vantaggio della scrittura responsiva; i quadri di riferimento estremamente disomogenei nei criteri di individuazione dei nuclei tematici delle seconde prove scritte, a proposito delle quali – tra l’altro – si fanno passare gli abbinamenti (il latino col greco, la matematica con la fisica, l’economia aziendale con l’informatica, le scienze umane con diritto ed economia politica, ecc.) come espressione di “interdisciplinarità”, laddove a me sembra, viceversa, che ci si trovi di fronte a un’esaltazione del disciplinarismo (per nobilitarlo, lo definiremo “disciplinarismo binario”). Molto è stato già detto e scritto a proposito dell’eliminazione, nella prima prova scritta, della traccia di argomento storico; il Ministro si è difeso sostenendo che temi storici potranno comunque essere inseriti nelle tracce che verranno proposte, già a partire da quest’anno; non si è reso conto che il problema sta proprio in quel “potranno” (in base a che cosa? Chi deciderà e con quali criteri?); lo studio della storia sarà dunque da intendere come “opzionale”? Con quali gravi conseguenze sulla formazione del cittadino è facilmente prevedibile (ma, da questo punto di vista, segnali inquietanti sono già diffusamente percepibili). Merita, poi, una riflessione il meccanismo introdotto per avviare il colloquio nell’ambito della prova orale, in assenza della “tesina”, lungamente e più o meno felicemente sperimentata, ritenuta ora obsoleta e riposta quindi in soffitta. Sarà la sorte a decidere se si prenderà avvio dall’analisi di un testo o di un documento, oppure da esperienze, progetti, problemi, riservando comunque spazi autonomi a “esperienze, percorsi e attività nell’ambito di Cittadinanza e Costituzione”, oltre che a brevi relazioni o elaborati multimediali sull’alternanza scuola-lavoro, ribattezzata come “percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”. Non insisto qui sul rischio di colloqui articolati in segmenti giustapposti; mi colpisce particolarmente la proposta “stravagante” (uso questo attributo in senso propriamente etimologico) del sorteggio iniziale (il candidato dovrà scegliere fra tre buste!), che riproduce modalità di tipo concorsuale, ma l’esame di maturità non è un concorso a cattedra! Ed è auspicabile che, al fondo, sia pure inconsapevolmente (?), non abbia indotto a questa scelta la cultura tutta italica del telequiz (chi non ricorda Mike Bongiorno che, mostrando le tre buste al concorrente, gli domandava: quale sceglie, la uno, la due o la tre?). In ogni caso, anche nel modo di concepire il colloquio riaffiora, prepotente, l’impulso selettivo. Più in generale, si ha la sensazione di poche, ma confuse, idee circa le finalità di questo esame, idee che affondano nelle sabbie mobili di una visione labile, sfuggente della scuola e della sua funzione sociale. Non sarebbe stata questa l’occasione utile per riaprire un confronto sull’innalzamento dell’obbligo a 18 anni, o magari sul riordino dei cicli? Oppure anche sul ruolo della scuola nella formazione del cittadino, visto il richiamo a un insegnamento (invero assai poco praticato) come Cittadinanza e Costituzione? Nulla di tutto ciò.

Ma ritorniamo al nostro esame. L’art. 33, comma 5, della Costituzione così recita: «È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale». È dunque, il nostro, un esame che “conclude”: esso conclude certamente un ciclo di studi, ma serve anche a segnalare un mutamento di status del giovane cittadino, il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, a meno che non lo si voglia ridurre a ciò che (cito qui nel tentativo – se possibile – di sdrammatizzare) raccomandava a noi studenti di terza liceo classico un mio grande professore di italiano e latino: “Non preoccupatevi troppo – diceva, quando eravamo ormai a fine anno – siate consapevoli che in fondo questo esame non è nient’altro che un confronto/scontro di ignoranze: l’ignoranza ufficiale, quella di chi vi esamina, e quella vostra, che aspira a diventare ufficiale”. In quelle parole, che volevano essere rassicuranti, risuonava l’eco del socratico “so di non sapere”, un’eco anacronistica (soprattutto per i tempi che viviamo), ma che tuttavia ci aiutava a dare un senso a quell’esame: un senso che negli anni si è andato smarrendo, ma che bisognerebbe ricostruire.

E penso che per restituire senso a questo esame occorrerebbe innanzitutto renderlo davvero coerente con un’idea di scuola, col contesto di un sistema nazionale di educazione, istruzione, formazione che sia capace di promozione sociale e pienamente inserito nella logica, nelle scansioni temporali e nei meccanismi dell’apprendimento e dell’educazione permanenti.

 

 

Approfondimenti

I cento anni di Mario Lodi

La rivista il Pepeverde, n. 13/2022, dedica ampio... leggi tutto »

Università: selezionare i migliori o migliorare tutti?

Dopo la pandemia sarebbe giunto il momento di... leggi tutto »

CNR: un ente da rilanciare

Alberto Silvani, nel suo articolo del nuovo... leggi tutto »

Letture di approfondimento